Fiumicino, SOS dell’azienda agricola che gestisce la Tenuta regionale Palidoro: “I canoni troppo alti rischiano di ‘uccidere’ l’attività”
C’è un grido d’allarme che arriva dalle campagne di Fiumicino, là dove la Tenuta regionale di Palidoro si estende su ettari di terreni fertili e storici, ma oggi segnati da un contenzioso che mette a rischio la sopravvivenza di chi quei campi li lavora da decenni. Protagonista è una azienda agricola, custode dei poderi Poggiolo I e Poggiolo II, che da anni coltiva quei terreni regionali nell’area di Palidoro.
L’impresa si è vista recapitare dalla Regione Lazio nuove richieste di canoni e condizioni d’affitto giudicate “insostenibili”, tanto da rivolgersi ai giudici amministrativi per chiedere giustizia. Ma la sentenza del TAR ha dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, rinviando la partita al giudice ordinario civile. Il rischio che l’azienda fallisca, in sostanza, è alto.
Dai beni sanitari alla Regione: la storia di un patrimonio conteso
La vicenda affonda le radici nella complessa gestione dei beni agricoli un tempo appartenenti al Pio Istituto di Santo Spirito e agli Ospedali Riuniti di Roma, poi trasferiti ai Comuni e infine alla Regione Lazio in seguito alla riforma sanitaria. Con la Legge regionale 14/2008, quei terreni furono incamerati per “contribuire all’azzeramento del disavanzo sanitario”, ma con una clausola precisa: salvaguardare le situazioni di disagio sociale. Una formula che oggi suona come un monito, di fronte al rischio di espulsione di agricoltori storici dai terreni che hanno reso produttivi per vent’anni.
L’azienda di Palidoro gestiva i poderi dal 1997 con un contratto di affitto stipulato con il Comune di Roma, poi disdettato nel 2010. Da allora, l’attività ha continuato a lavorare la terra “in proroga”, pagando un’indennità di occupazione alla Regione.
La nuova legge e i canoni “fuori mercato”
Nel 2016 la Regione Lazio approvò la Legge n. 12, che disciplinava il rinnovo dei contratti agricoli scaduti. Sulla carta, una riforma per garantire trasparenza e valorizzazione del patrimonio pubblico. Nella pratica, però, l’applicazione del regolamento ha prodotto canoni agricoli molto più alti di quelli di mercato, calcolati con criteri rigidi e uniformi, senza considerare le condizioni reali dei terreni o la sostenibilità economica per le aziende.
Con una nota del 2021, la Regione ha proposto alla società agricola un nuovo contratto d’affitto con importi triplicati, chiedendo la firma “senza riserve”. L’impresa ha chiesto un confronto e la revisione delle clausole, ma la Regione ha interpretato la mancata firma come un rifiuto del rinnovo, avviando le procedure di rilascio dei terreni e negando all’azienda le attestazioni necessarie per accedere ai fondi europei PAC, vitali per ogni attività agricola.
I fondi europei bloccati e il rischio chiusura
Il nodo più drammatico riguarda proprio la sospensione delle attestazioni regionali indispensabili per la domanda di contributi AGEA. Senza quelle certificazioni, l’azienda non può ricevere i fondi PAC, che rappresentano spesso oltre la metà del reddito per le imprese agricole.
È una decisione che ha avuto un effetto paralizzante: meno liquidità, investimenti fermi, rischio concreto di dover licenziare personale o abbandonare i terreni.
Eppure, fino al 2021 la Regione aveva regolarmente rilasciato le attestazioni anche alle aziende in attesa di rinnovo contrattuale. Dal 2022, la svolta: chi non accetta i nuovi contratti “senza riserve” viene tagliato fuori dai contributi. Un approccio che, secondo i legali dell’azienda, trasforma un rapporto privatistico in una forma di pressione amministrativa incompatibile con il diritto alla continuità produttiva.
La sentenza del TAR: “Non è materia amministrativa”
Il TAR del Lazio ha stabilito che il contenzioso non riguarda un atto amministrativo, ma un rapporto privatistico di locazione. Tradotto: la Regione, quando affitta terreni del proprio patrimonio disponibile, agisce come un qualsiasi proprietario e non come autorità pubblica.
Da qui la decisione di dichiarare il ricorso inammissibile e rinviare la questione al giudice ordinario. Una vittoria solo formale per la Regione, ma che lascia intatto il problema di fondo: come può un ente pubblico conciliare la valorizzazione dei propri beni con la tutela di chi, da generazioni, quei beni li rende produttivi?
Un problema politico, non solo legale
La sentenza del TAR non chiude la vicenda: la battaglia si sposterà ora nelle aule civili. Ma il caso Palidoro solleva interrogativi più ampi sul modello di gestione del patrimonio agricolo regionale. Da anni, la Regione Lazio parla di “valorizzazione”, ma spesso questa si traduce in aumenti dei canoni, bandi deserti e aziende costrette a chiudere o a cedere il passo a realtà speculative.
In un’epoca in cui si parla di sovranità alimentare e di difesa dell’agricoltura di prossimità, la storia dei poderi Poggiolo suona come un campanello d’allarme: la burocrazia rischia di soffocare le campagne più di qualunque crisi di mercato.
E mentre il giudizio passa di mano, la terra resta lì, sospesa tra diritto e politica, in attesa che qualcuno si chieda – davvero – se la “valorizzazione” del patrimonio pubblico debba significare la rovina di chi lo fa vivere.
