Il tesoretto da referendum: 2,5 milioni in arrivo per la Cgil e gli altri promotori

Chi pensa che i referendum siano solo nobili esercizi di democrazia diretta dovrebbe dare un’occhiata ai conti. Il voto dell’8 e 9 giugno 2025 — che ha chiamato gli italiani a esprimersi su cinque quesiti promossi dalla Cgil e da altri sindacati — porta con sé non solo un carico di tensione politica, ma anche un corposo ritorno economico. Se sarà superato il fatidico 50% più uno degli aventi diritto al voto, scatterà un rimborso statale destinato ai promotori. Una cifra che, stando ai conteggi ufficiali, può arrivare fino a 2,5 milioni di euro. Altro che semplice risarcimento spese: si tratta di un autentico tesoretto pubblico, previsto per legge ma finito spesso sotto silenzio.
Quanto costa “difendere il lavoro”?
In nome della “difesa del lavoro”, si mobilitano piazze, firme, gazebo, spot e campagne social. Ma dietro la retorica del bene comune, la legge 157 del 1999 riconosce un rimborso di 1 euro per ogni firma valida raccolta, fino a un tetto massimo stabilito dal Ministero dell’Economia. Nel caso specifico del referendum 2025, le sottoscrizioni ammesse ammontano a circa 2,58 milioni, centesimo più centesimo meno. Il bonifico (in caso di raggiungimento del quorum anche di un solo quesito) avverrebbe con un decreto ministeriale, probabilmente entro la fine di luglio, e finirebbe direttamente nei conti correnti intestati ai comitati referendari, molti dei quali legati in modo diretto o indiretto alla CGIL e a sigle del sindacalismo di base. Non sarebbe un premio, dicono i promotori. E in effetti non lo è. Ma resterebbe un gruzzoletto non indifferente, soprattutto se si considera che i costi rendicontati sono forfettari e il controllo sulle effettive spese è minimo.

Dietro ogni firma, un euro
Certo, raccogliere firme non è gratis: servono materiali, autenticatori, organizzazione logistica, comunicazione. Ma la logica del rimborso forfettario — non strettamente correlato alle spese effettive — ha fatto storcere il naso a molti. Il sistema, pensato per sostenere la partecipazione civica, rischia di trasformarsi in uno strumento economicamente appetibile per soggetti già strutturati. Se da un lato il meccanismo aiuta a non lasciare la democrazia diretta nelle mani di chi ha solo risorse illimitate, dall’altro premia chi possiede le strutture per macinare adesioni a tappeto. Un vantaggio evidente per la Cgil di Maurizio Landini, che può contare su una rete capillare sul territorio, e che ora vede arrivare sul tavolo non solo consenso politico, ma anche un congruo rimborso.
Tra idealismo e interessi: chi paga davvero?
Il paradosso è servito: mentre il Paese si divide su diritti, contratti e cittadinanza, la macchina referendaria si muove anche sull’asse del vil denaro. Il rimborso statale ai promotori è una conquista della partecipazione o un incentivo distorto? È giusto che i soldi pubblici vengano usati per “premiare” chi organizza consultazioni che hanno spesso finalità politiche più che civiche? La risposta, come spesso accade in Italia, sta a metà tra il principio e il tornaconto. Ma intanto, chi ha promosso la consultazione — in primis la CGIL — potrebbe presto festeggiare, se gli italiani accorreranno alle urne e faranno raggiungere il quorum anche di un solo quesito, come detto. Perché, in democrazia, anche la partecipazione ha un prezzo. E a volte, un bel margine.