L’onda lunga di Acca Larenzia: una ferita che non smette di sanguinare

ACCA LARENZIA corteo (2)

Leggendo i commenti sui social di chi c’era, ma anche di chi non c’era, ci si accorge che quella del 7 gennaio è davvero una ferita che si riapre ogni anno. L’eccidio da parte di comunisti dei tre ragazzi missini, tutti ventenni, lascia una cicatrice aperta. Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta uccisi in un agguato da un commando di terroristi rossi, mai individuati. L’altro, Stefano Recchioni, ucciso da un colpo di pistola proveniente allo schieramento delle forze dell’ordine, carabinieri, anche se il maggior indiziato è stato assolto da quel crimine. Un provocatore? Un infiltrato? Non lo si saprà mai, anche perché su quella strage il regime calò fin da allora una coltre di silenzio. Il “biondino”, lo “zoppo” la Skorpion del poliziotto… Sarebbe stato davvero così difficile dare un volto e un nome agli assassini? Noi non lo crediamo.

Acca Larenzia non smette di sanguinare

Ma la ferita non smette di sanguinare soprattutto dopo che, anche oggi, sentiamo voci contrarie alla commemorazione, ai saluti romani, alle parate fasciste, come dicono loro. La sinistra, che non ha mai rinnegato il comunismo e i suoi cento milioni di morti, se va bene, continua a vomitare odio contro dei ragazzi di vent’anni che avevano deciso solo di inseguire i propri ideali. La loro colpa fu di averlo fatto dalla parte sbagliata, quella non corretta. Se fossero stati di sinistra ci sarebbero oggi le commemorazioni delle istituzioni, dello Stato, del regime, della grancassa degli intellettuali di sinistra venduti alla parte dove spira il vento. Ma non è detto che il vento non debba e non possa cambiare, e che chi è caduto per un’idea, in tempo di pace, possa trovare la sua giustizia e la sua pace.

L’onda lunga di via Acca Larenzia: sette i morti

Sì, Acca Larenzia è stata una tragedia per tutta una comunità. E pochi sanno che la sua onda lunga non provocò tre, ma sette morti. Quel commando di terroristi antifascisti – uccidere un fascista per certa gente anche oggi non è reato – ha continuato a uccidere per anni. E si cominciò pochi mesi dopo, quando il padre di Francesco Ciavatta, Giuseppe Antonio, fu trovato morto nei giadinetti pubblici dopo aver ingerito acido muriatico non sopportando la perdita del suo unico figlio. E a un anno di distanza ci fu il quinto atto della tragedia. Nel corso della più ignobile e vigliacca persecuzione dei ragazzi missini da parte di sinistra e istituzioni, un giovane 17enne, Alberto Giaquinto fu ucciso con un colpo alla nuca da un poliziotto, Alessio Speranza, che lo colpì da dietro. Stavolta non ci riuscirono a farlo assolvere, ma prese solo sei mesi.

Giaquinto, il comportamento vergognoso del Viminale

E mentre Giaquito spirava tra le braccia della madre, la Digos era a casa sua alla ricerca di una inesistente pistola per gettare fango su un ragazzo di 17 anni. Ma non finì qui: in modo omertoso il Viminale rifiutò di dire il nome del poliziotto, e fu solo grazie al padre di Alberto che la verità emerse. Almirante in aula denunciò la vicenda, costringendo il ministero ad ammettere le proprie responsabilità. Le menzogne della polizia politica crollarono e lo Stato costretto a dare un indennizzo alla famiglia, che poi l’avvocato Tallarico utilizzò per costruire la tomba dove riposa oggi Alberto. Ma il giorno dopo il funerale di Alberto un suo compagno di scuola, Mauro Culla, si suicidò nel box di casa, forse per lo sconforto per la morte del suo compagno di classe. Non lo sapremo mai.

Quel giovane di Lotta Continua che si uccise in carcere

Ma la strage ha fatto, direttamente o indirettamente, una settima vittima, un altro giovanissimo. Parliamo del misterioso suicidio in carcere dell’estremista di sinistra, appartenente a Lotta Continua, Mario Scrocca, 28 anni, infermiere all’ospedale Santo Spirito. Fermato il 30 aprile 1987, nove anni dopo strage, ebbe un primo interrogatorio davanti al giudice istruttore Guido Catenacci. E la notifica del mandato di cattura per l’omicidio dei due ragazzi di destra. La sera dopo, approfittando di un momento in cui la guardia carceraria di turno si era allontanata, si strinse un asciugamano attorno al collo. Poi lo fissò alla serratura di una finestra e si lasciò cadere nel vuoto. Probabilmente l’avrebbero assolto per insufficienza di prove come i suoi due compagni arrestati insieme a lui. E allora, perché uccidersi? E’ l’ultimo mistero di via Acca Larenzia.