Non si potrà più punire il giornalista con il carcere, tranne che in casi gravissimi

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Le norme vigenti che obbligano il giudice a punire con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa o della radiotelevisione, aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, sono incostituzionali. Perché contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere può produrre infatti l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri. Questi alcuni dei passaggi più significativi della sentenza numero 150 depositata oggi (redattore Francesco Viganò), il cui contenuto era stato anticipato con il comunicato stampa dello scorso 22 giugno.

Carcere solo per diffamazioni consapevolmente false e gravi

Tuttavia, non è di per sé incompatibile con la Costituzione che il giudice applichi la pena del carcere. Ad esempio, a chi si sia reso responsabile di “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima. E compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi”. “Chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di cane da guardia della democrazia. La quale si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità scomode. Ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia”, anche per i possibili effetti distorsivi di tali condotte sulle libere competizioni elettorali.

La Consulta chiedeva una nuova disciplina della materia. Che non è arrivata

La Corte si è pronunciata su due questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari, che erano già state trattate nel giugno dello scorso anno. In quell’occasione, il Giudice delle leggi aveva deciso, con l’ordinanza n. 132 del 2020, di rinviare di un anno la decisione delle due cause. Per dar modo al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina della materia, in grado di bilanciare meglio il diritto alla libertà di cronaca e di critica dei giornalisti con la tutela della reputazione individuale. Poiché, però, l’auspicata riforma della materia non è stata approvata, la Corte ha ora dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948). Che prevedeva la necessaria applicazione della reclusione da uno a sei anni per il reato di diffamazione commessa a mezzo della stampa.

Aggressioni illegittime alla reputazione non saranno tollerate

Nella motivazione dell’odierna pronuncia anzitutto ribadito quanto già sottolineato nell’ordinanza n. 132 del 2020. Se è vero che il diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti “costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla dignità della persona”. Pertanto, “aggressioni illegittime a tale diritto”, compiute attraverso la stampa, la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e i siti internet in generale, i social media e così via, “possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime”.

Nei casi meno gravi resterà la pena della multa

Secondo la Consulta e la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, non è di per sé incompatibile con la libertà di manifestazione del pensiero una norma che consenta al giudice di applicare la pena della reclusione. Però nel caso in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità, dal punto di vista oggettivo e soggettivo. Perciò l’articolo 595, terzo comma, del Codice penale è compatibile con la Costituzione. Purché sia interpretato nel senso che la reclusione può essere applicata dal giudice soltanto in quelle ipotesi. In tutti gli altri casi, resterà invece applicabile soltanto la pena della multa. Opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, oltre che i rimedi e le sanzioni civili e disciplinari.