Roma, 179 bar chiusi e 500 posti di lavoro in meno in sei mesi: tutti i dati della crisi

Un classico bar di Roma

Nei primi sei mesi dell’anno la Capitale ha perso 179 bar: il dato, allarmante, arriva dall’elaborazione condotta da FipeConfcommercio su fonti Infocamere e fotografato dalla cronaca economica cittadina. A fronte di 86 nuove iscrizioni alla Camera di commercio si contano 265 cessazioni: un saldo che racconta la difficoltà del modello di business tradizionale del caffè romano. Nel resto del Lazio la situazione non migliora: le 149 aperture non bilanciano le 387 saracinesche abbassate.

Lo stato dei bar di Roma, la crisi sempre più nera

La perdita di posti di lavoro è la diretta conseguenza di queste chiusure. Tra gennaio e giugno si stimano circa 500 posti di lavoro in meno nel comparto dei bar a Roma e oltre 25 milioni di euro di fatturato evaporato rispetto allo stesso periodo: numeri che pesano sull’economia locale e sulle famiglie che lavorano nel settore. Le chiusure non sono solo statistiche: significano salari mancati, contratti interrotti e servizi in meno nei quartieri.

I dati strutturali

Dietro i numeri ci sono dinamiche strutturali: la densità imprenditoriale del settore è elevata e la marginalità è stretta. Secondo Fipe, negli ultimi dieci anni oltre 21mila bar hanno cessato l’attività in Italia; il tasso di sopravvivenza a cinque anni si attesta intorno al 53%. Il risultato è un settore sempre più fragile, dove anche le imprese storiche devono ripensare prezzi, offerta e modalità operative.

I costi che strozzano il bilancio sono noti: il personale assorbe una quota molto rilevante dei ricavi (intorno al 40-50%), seguono le materie prime, gli oneri di struttura e la manutenzione. Su queste voci pesa l’andamento dello scontrino medio, che spesso non basta a coprire uscite fisse e investimenti necessari per innovare il servizio. Il risultato è una pressione sulle imprese che si traduce in riduzione degli orari, contratti più precari e, per chi non ce la fa, chiusura.

Le proposte, aggregazioni di catene di bar anche a Roma?

Tra le risposte emergono strategie di rete e di valore: alcuni gestori propongono l’aggregazione in catene leggere per spalmare i costi di marketing e acquisto e guadagnare potere contrattuale sui fornitori. Altri puntano al rialzo della qualità — e quindi dei prezzi — accompagnato da un’offerta differenziata (brunch, pasticceria artigianale, caffè specialty) per attrarre cliente locale e turista disposto a spendere di più. Il rilancio passa dall’innovazione del prodotto e dalla capacità di comunicare il valore aggiunto.

La concorrenza sui prezzi è un ulteriore nodo: la liberalizzazione delle licenze e la sovrabbondanza di esercizi ha spinto molti a ridurre i listini per catturare clientela, erodendo margini già bassi. Chi tenta invece di diversificare — puntando su esperienza, qualità e servizi accessori — dichiara che il pubblico risponde, ma che il percorso richiede investimenti e tempi non sempre compatibili con la liquidità disponibile.

Per la città la crisi dei bar ha impatti concreti sulla vita urbana: meno punti di socialità di quartiere, meno lavoro giovanile e una fragilità sempre più visibile nelle vie commerciali minori, dove spesso i locali chiudono e al loro posto nascono attività con margini differenti (ristorazione più turistica, negozi online). Le amministrazioni locali e le associazioni di categoria sono chiamate a misure mirate: semplificazione mirata, supporto alla formazione e incentivi per la modernizzazione potrebbero salvare attività però solo se accompagnati da una strategia di lungo periodo.

La fotografia odierna è netta: il bar resta un presidio sociale ed economico, ma il suo modello tradizionale è sotto stress. Le scelte dei prossimi mesi — prezzo, qualità, organizzazione e alleanze tra esercenti — decideranno quanti locali riusciranno a trasformarsi per sopravvivere e quanti invece scompariranno, con il conto finale che si misurerà in occupazione persa e in spazi urbani impoveriti.