Roma, dehors negato al ristorante in centro: il Tribunale diffida il Campidoglio (che non rispetta la sentenza)
Roma, piazza San Lorenzo in Lucina non è una piazzetta qualunque: è uno dei “salotti” del centro storico, a due passi da via del Corso, nel cuore dello shopping e del turismo romano. Proprio qui – davanti a un noto locale di ristorazione affacciato ai civici 2, 2A e 3 – si è accesa una battaglia che racconta molto di come Roma governa (o fatica a governare) lo spazio pubblico.
La vicenda nasce dalla richiesta di occupazione di suolo pubblico: in parole semplici, il permesso per sistemare tavolini, sedute o strutture esterne a servizio del ristorante. È la classica partita del “dehors”: un pezzo di marciapiede o di piazza che diventa, temporaneamente, estensione dell’attività privata.
Il punto: non è (solo) un ristorante, è una regola che vale per tutti
Il Tribunale non entra nella discussione “tavolini sì/tavolini no” in modo ideologico. La questione è più concreta: Roma aveva chiuso la pratica con una “improcedibilità”, cioè senza valutarla nel merito, sostenendo in sostanza che per quell’indirizzo il Piano di Massima Occupabilità non prevedeva spazi concedibili.
Il Tribunale, con una prima sentenza (la n. 9988/2025, 23 maggio 2025), aveva già detto: non basta che un PMO non indichi un’occupazione per dichiarare automaticamente la domanda improcedibile. Il Comune doveva istruire la pratica con i criteri ordinari oppure, se necessario, trattarla come richiesta di revisione del PMO.
E qui arriva il secondo tempo: la società ricorrente torna dal giudice con un ricorso “per ottemperanza”, perché – pur dopo la sentenza – l’interesse reale resta lo stesso: ottenere una risposta vera, finale, scritta. Risultato: nuova sentenza. Il TAR accoglie il ricorso e ordina a Roma di adottare un provvedimento espresso entro 30 giorni. Se non lo farà, potrà essere nominato un commissario ad acta (e i costi ricadrebbero sull’amministrazione soccombente).
Perché il Campidoglio è in difficoltà: la transizione “politica” del suolo pubblico
Questa sentenza arriva mentre Roma sta vivendo una fase delicatissima: il riordino delle occupazioni, dopo anni in cui – anche per effetto di misure emergenziali e della loro eredità – i dehors sono diventati un tema permanente di conflitto tra residenti, commercianti e istituzioni.
Nel frattempo, in Campidoglio si è avviata una stretta regolatoria: alle attività viene chiesto di adeguarsi alle nuove regole e di presentare le istanze necessarie entro scadenze ravvicinate, con il rischio di perdere occupazioni già in essere in caso di inerzia. In questo quadro, la partita dei Piani di Massima Occupabilità diventa politica prima ancora che amministrativa: è lo strumento con cui la città prova a dire “qui sì, qui no, qui con limiti”, soprattutto nelle aree di pregio.
La lettura politica: quando l’inerzia diventa un messaggio
Il TAR, in sostanza, manda un segnale: non si governa la città con il “non si può” automatico, soprattutto se la regola (il PMO) è uno strumento pianificatorio che può essere rivisto e va applicato con istruttorie complete. La politica, qui, sta nel sottotesto: il centro storico è un terreno dove ogni metro quadro vale consenso (e polemica). Concedere troppo alimenta la narrativa della “città invasa”; concedere troppo poco – o peggio non decidere – alimenta la narrativa opposta: “Roma ostile alle imprese, prigioniera della burocrazia”.
E infatti il punto non è soltanto il singolo dehors: è la credibilità della macchina capitolina. Perché quando un tribunale deve fissare un termine e minacciare un commissario per ottenere una decisione amministrativa, il tema diventa pubblico: riguarda residenti (spazio e fruizione), imprese (certezza delle regole), e la città (decoro, mobilità, turismo).
Cosa succede adesso (e perché interessa anche altri locali)
Ora Roma deve chiudere il procedimento con un atto espresso: può anche dire “no”, ma deve motivarne le ragioni dopo un’istruttoria completa e coerente con il quadro regolatorio. Ed è questo l’aspetto di pubblica utilità: la sentenza traccia una linea per tutti i casi simili nel centro storico, dove “mancano” previsioni nei piani o dove la pratica rischia di arenarsi tra uffici e sovrapposizioni di competenze.
In una Roma che sta riscrivendo le regole dei tavolini, il messaggio del TAR suona come un avvertimento politico-amministrativo: decidere è un dovere. Rinviare, no.