Roma, la chef 49enne Cinzia Ponzo uccisa dal manto stradale sull’A1: tecnici di autostrade verso il processo
Un tratto di asfalto consumato, un giunto stradale ridotto a una lastra scivolosa. Sull’A1, all’altezza di Teano, tre motociclisti sono finiti a terra in pochi mesi. Una di loro, la chef romana Cinzia Ponzo, è morta. E adesso la Procura ha chiuso le indagini, chiedendo il processo per un direttore dei lavori e due ingegneri legati alle società che operano per Autostrade per l’Italia, indicata come responsabile civile.
Ma non è tutto: altre nove persone, molte delle quali dipendenti Aspi, potrebbero finire davanti al giudice se venissero accolte le opposizioni all’archiviazione presentate dai familiari delle vittime. Una vicenda che rivela falle, ritardi, omissioni e un pericolo noto da mesi.
La morte della chef romana Cinzia Ponzo
Il 30 aprile 2023 Cinzia Ponzo, 49 anni, chef di Roma, viaggia in moto con il marito Michelangelo Luddeni, dipendente Ama. Sono esperti, attenti, abituati alla strada. Ma quel giorno non basta. La moto perde aderenza sulle mattonelle usurate che coprono il giunto. Lei muore sul colpo. Lui rimane gravemente ferito: oggi ha un’invalidità del 100%. Due giorni dopo, nello stesso identico punto, un altro motociclista viene sbalzato a terra. L’ennesimo incidente in un tratto che, come dirà il perito nominato dal giudice, è capace di trasformarsi in una “lastra di ghiaccio”.
Secondo i periti della procura, il tratto incriminato sembra un doppio binario lungo 45 metri. Due linee parallele, consumate, rigide, in grado di rendere la carreggiata «simile a una lastra di ghiaccio». Un rischio enorme, su una delle arterie più trafficate d’Italia. E i problemi, dicono gli atti, erano evidenti già dal gennaio 2023, quando un motociclista cade e finisce in ospedale. Passano due mesi e il 13 marzo un dipendente dei lavori per Autostrade invia una mail di allerta. Nella missiva si parla mattonelle consumate, tirafondi da sistemare, massetti da ripristinare. La mail arriva a diversi funzionari: direttori dei lavori, responsabili tecnici, coordinatori.
Il sopralluogo “senza anomalie” e il rattoppo inutile
Due giorni dopo la segnalazione, viene effettuato un sopralluogo. Ma secondo l’accusa dall’esame non sarebbe risulta nessuna anomalia. Una conclusione che oggi pesa come un macigno. Perché qualcosa, invece, si muove: il 30 marzo vengono ordinati degli interventi di manutenzione da parte del direttore dei lavori. Interventi effettuati tra il 6 e il 15 aprile. Ma incompleti. Non vengono sostituite le mattonelle usurate, proprio quelle che proteggevano il giunto incriminato. Il risultato, come stabilirà l’esame tecnico, vedrà “mattonelle di plastica usurata intervallate da mattonelle nuove. In alcuni tratti della parte terminale del giunto era assente la plastica fungente da pavimentazione”. Un disastro per i motociclisti.
All’inizio, la procura attribuisce la colpa a Michelangelo Luddeni, marito della donna morta. Rischia di essere processato per omicidio stradale. Ma gli avvocati Pierluigi Nazzaro, Andrea Salustri, Giorgia Villani e Rossella Rago ricostruiscono la dinamica. I periti del giudice lo confermano: la caduta nasce da un difetto strutturale del giunto. Nessun errore umano. Solo un tratto di strada che non garantiva aderenza.
Due procedimenti penali e due ricorsi al Tar del Lazio
Il primo procedimento riguarda omicidio stradale e lesioni: a rischio ci sono il direttore dei lavori e due ingegneri incaricati da Aspi. Il secondo fascicolo ha al centro un responsabile tecnico di Autostrade: su di lui pende una richiesta di archiviazione. Ma le famiglie delle vittime non vogliono accettarla. Perché la mail del 13 marzo non è un dettaglio. E perché alcuni documenti richiesti dagli avvocati non sono mai arrivati. Parallelamente, ci sono anche due ricorsi davanti al Tar del Lazio: le parti civili denunciano la mancata consegna dei documenti relativi ai controlli effettuati su quel tratto dell’A1. Vogliono capire se quella strada è stata davvero monitorata e quanti motociclisti abbiano rischiato la vita prima che avvenisse il peggio.
Cinzia Ponzo ha lasciato due figli e tre fratelli. La famiglia, come quella degli altri motociclisti, attende giustizia. Finora le offerte di risarcimento, mai concretizzate, sono state definite “irrisorie”. Ora sperano che il processo faccia emergere ciò che per loro è chiaro: quel giunto non era un imprevisto, ma un rischio annunciato. E quel rischio, non affrontato per tempo, è costato una vita.