Roma, l’ex colonnello molestava figli di amici: confermata la condanna a 8 anni
La Corte d’Appello di Roma ha confermato la condanna a otto anni di reclusione per Paolo Nicastro Guidiccioni, ex colonnello dell’Esercito, accusato di aver molestato due ragazzi di appena tredici anni. Il verdetto ribadisce la gravità dei fatti già accertati in primo grado, riconoscendo la totale assenza di consapevolezza del disvalore delle proprie azioni da parte dell’imputato.
Un caso che ha scosso la Capitale, non solo per la posizione dell’uomo — un militare stimato, amico di famiglia delle vittime — ma per la dinamica con cui ha saputo insinuarsi nelle vite di chi gli aveva concesso piena fiducia. Oggi l’ex ufficiale non è sottoposto a misure cautelari detentive, ma gli è stato imposto il divieto di avvicinamento e di frequentazione di determinati luoghi.
Il “Peter Pan” che abusava della fiducia
“Mi sentivo giovane, quasi poco più che coetaneo, ero ‘Peter Pan’, mi sentivo bene con i giovani in generale”, aveva detto Guidiccioni ai giudici. Un tentativo di giustificarsi che ha lasciato attoniti i magistrati. “Mi sono sostituito a voi, a un fratello maggiore, a un tutor… sono stato uno scriteriato”, aggiunse in aula.
Ma le parole dell’ex colonnello non hanno convinto la Corte. La sentenza parla chiaro: dietro quella maschera di spensieratezza si celava una condotta consapevole e reiterata, portata avanti nel tempo con freddezza e dissimulazione. Guidiccioni non era un “Peter Pan”, ma un adulto che ha abusato del proprio ruolo, sfruttando la familiarità e la fiducia che le famiglie avevano riposto in lui.
Il “finto zio” e l’abbraccio tradito
L’ex militare si presentava come “zio Paolo”, un punto di riferimento, una presenza affettuosa nelle giornate dei figli degli amici. Organizzava giochi, gite, momenti di svago. Poi, quando restava solo con i ragazzi, le attenzioni diventavano violenza. Episodi che si sono ripetuti nel tempo, persino durante giochi in acqua o momenti di presunta spensieratezza.
La prima vittima, dopo l’ennesimo abuso, è scoppiata in lacrime e ha trovato la forza di raccontare tutto ai genitori. È stato il coraggio di quel tredicenne a innescare l’indagine che ha svelato un secondo caso e portato all’arresto dell’ex colonnello, sorpreso mentre accompagnava un altro ragazzo in un albergo.
Il dolore delle vittime
Le parole delle vittime, oggi adolescenti segnati da un dolore difficile da raccontare, restano scolpite negli atti processuali. “Non auguro a nessuno quello che è successo a me. Dovrei essere spensierato ma non riesco. L’unica certezza è il vuoto che permane”, ha scritto uno dei ragazzi in un testo musicale che ha commosso la Corte.
È in quel vuoto che si misura la devastazione lasciata da un tradimento tanto profondo: un abuso non solo fisico, ma psicologico e familiare, che ha infranto la fiducia più sacra — quella tra adulti e minori, tra amici e genitori.
Le lettere e la difesa impossibile
Dal carcere, Guidiccioni aveva scritto ai genitori delle vittime, tentando una giustificazione che i giudici hanno ritenuto “inquietante”. Aveva parlato di “istinto di paternità” e di “sincero affetto nei confronti dei minori”, ammettendo persino di aver “mischiato educazione fisica con educazione sessuale”.
Parole che, per la Corte, confermano l’incapacità dell’uomo di comprendere la gravità del proprio comportamento. Nessuna forma di pentimento autentico, nessuna presa di coscienza. Solo un malinteso senso di familiarità, deformato fino a diventare violenza.
La decisione della Corte e il valore pubblico della sentenza
Gli avvocati delle parti civili, Elisabetta Perugini e Fabio Belardi, hanno espresso soddisfazione: “Non ci aspettavamo una sentenza diversa. I fatti contestati sono gravi e insidiosi. La Corte ha compreso il carattere e la personalità dell’imputato, che ha fatto leva sulla fiducia che i genitori avevano in lui”.
La decisione della Corte d’Appello non è solo una conferma di giustizia, ma un messaggio di tutela sociale: riafferma che nessuna divisa, nessun ruolo e nessuna amicizia possono giustificare o attenuare un abuso di potere contro chi è più fragile.
In un contesto in cui la fiducia familiare può trasformarsi, se mal gestita, in un’arma di sopraffazione, questa sentenza rappresenta un monito: proteggere i minori è un dovere collettivo, e riconoscere la gravità di simili comportamenti è un atto di civiltà.