Roma, omicidio Di Giacomo a Tor Bella Monaca, condannato a 24 anni un 30enne: movente tra debiti e gelosie


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Roma, 24 anni di carcere. È la sentenza della Terza Corte d’Assise di Roma a chiudere, almeno per ora, il capitolo giudiziario sull’agguato che il 14 settembre 2023 costò la vita a Daniele Di Giacomo, 38 anni, autonoleggiatore, ucciso a Tor Bella Monaca con diversi colpi di pistola davanti a un bar-tabacchi di via Paolo Ferdinando Quaglia. Per l’agguato, è stato condannato un uomo di 30anni.

Roma, debiti, rancori e amori finiti

Secondo quanto emerso dalle indagini della Squadra Mobile, il movente sarebbe un intreccio di denaro e passioni interrotte. Alla base del delitto, un debito di circa 20mila euro legato al danneggiamento di un’auto presa a noleggio dalla società di Di Giacomo e, insieme, il sospetto che la compagna della vittima — ex del condannato — avesse intrapreso con lui una relazione quando la precedente storia non era ancora formalmente conclusa.
Messaggi intercettati, con frasi come «è guerra aperta» e «con questi me ce devo ammazzà», avrebbero confermato l’escalation di rancore e la volontà di regolare i conti fuori da ogni logica di legge.

L’agguato in pieno giorno

La dinamica del delitto è quella di un’esecuzione: diversi colpi esplosi in pieno giorno, la donna ferita a un ginocchio, salvata solo perché l’uomo — secondo la sua stessa testimonianza — l’avrebbe protetta facendo da scudo.
I giudici hanno accolto le richieste del pubblico ministero Paolo Ielo, stabilendo una condanna a 24 anni di reclusione, con le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante della premeditazione.
Un equilibrio di bilancio penale che non cancella la ferocia di quanto accaduto né il senso di insicurezza che attraversa Roma, sempre più spesso teatro di delitti di provincia travestiti da drammi di quartiere.

“Ho distrutto la vita di molte persone”

Nel corso del processo, l’imputato ha ammesso le proprie responsabilità, dichiarando in aula: «Sono colpevole di aver ucciso Daniele. Ho meditato tanto in carcere, so che aveva tre bambini piccoli e ho distrutto la vita di molte persone».
Parole che pesano come piombo, ma che non bastano a ricomporre l’infranto: una famiglia distrutta, un quartiere ferito, una città che continua a contare i suoi morti per rancori privati trasformati in tragedie pubbliche.
Nessuna confessione, per quanto sincera, può cancellare la percezione di abbandono che si respira nelle periferie romane.

La difesa prepara l’appello

La difesa, tuttavia, non si arrende. L’avvocato Alessandro Marcucci ha annunciato ricorso in appello, sostenendo che «l’istruttoria non ha offerto elementi certi per ritenere che sussista l’aggravante della premeditazione».
Una posizione che aprirà un nuovo capitolo giudiziario, ma che non muta la sostanza di una vicenda che riporta l’attenzione su un territorio dove la violenza si annida sotto la pelle del quotidiano e dove la giustizia arriva sempre dopo, quando il sangue è già stato versato. La sentenza dei 24 anni rappresenta un passaggio giudiziario importante, ma non basta a chiudere la ferita.