Roma, sfregio alla sinagoga: vernice sulla targa del bimbo ucciso nel 1982. La Procura apre un’inchiesta per odio razziale
Roma, a Monteverde, uno dei quartieri più vissuti e “tranquilli” della Capitale, qualcuno ha scelto la notte per lanciare un messaggio che sa di intimidazione. All’esterno della sinagoga Beth Michael, nell’area tra via di Villa Pamphili e le strade residenziali del quartiere, sono comparse scritte come “Palestina libera” e “Monteverde antisionista e antifascista”. Ma soprattutto è stata annerita con vernice nera la targa dedicata a Stefano Gaj Taché.
E questo, a Roma, non è un dettaglio. Quella targa richiama una ferita che la città non ha mai davvero archiviato: Stefano aveva due anni ed è il bambino ucciso nell’attentato del 9 ottobre 1982 al Tempio Maggiore, durante un attacco terroristico che segnò per sempre la Comunità ebraica romana e l’intero Paese. Colpire quel ricordo significa toccare un nervo scoperto, soprattutto oggi, nel pieno di un clima sociale già esplosivo.
Procura e Digos: l’inchiesta entra nel vivo
Sull’episodio indaga la Digos. Gli investigatori stanno lavorando sui filmati di videosorveglianza: sarebbero state riprese due persone incappucciate mentre imbrattavano i muri con bombolette spray, in un’azione che sarebbe avvenuta nella notte. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo ipotizzando il danneggiamento aggravato dall’odio razziale, un’impostazione che alza il livello dello scontro: non un “semplice vandalismo”, ma un gesto dal possibile movente discriminatorio.
Nel frattempo, sul piano amministrativo, si va verso la rimozione delle scritte e il ripristino dei luoghi. Ma la partita vera non è la vernice: è il segnale.
Il nodo politico: quando il conflitto “importato” diventa odio in casa nostra
Qui sta l’aspetto più urgente di pubblica utilità. In democrazia si può criticare un governo, si può contestare una linea internazionale, si può manifestare per Gaza o contro le scelte di Israele. Ma quando il bersaglio diventa un luogo di culto ebraico e la memoria di un bambino ucciso dal terrorismo, la protesta smette di essere discussione politica e scivola in un messaggio indirizzato a una minoranza: “qui non siete al sicuro”.
Victor Fadlun, presidente della Comunità Ebraica di Roma, ha parlato di “clima intimidatorio”. Ed è un passaggio che pesa: perché descrive un salto di qualità, l’idea che l’identità ebraica venga trascinata dentro una polarizzazione che non guarda alle persone, ma alle etichette. Tanto che dal Quirinale è arrivato un segnale istituzionale netto: il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso solidarietà alla Comunità e vicinanza per quanto accaduto.
Cosa può fare chi ha visto qualcosa
Ora servono fatti, non solo indignazione. Se qualcuno ha notato movimenti sospetti, persone incappucciate, auto che si fermano in ore insolite o dettagli utili in zona Monteverde/Villa Pamphili, la cosa più concreta è segnalare alle forze dell’ordine, anche con indicazioni di orari e direzioni. Perché in episodi del genere i dettagli minimi — un percorso, un abbigliamento, un mezzo — possono fare la differenza.
Perché alla fine la domanda è semplice e riguarda tutti: Roma vuole essere una città dove si discute, si protesta, si litiga anche duramente. Ma non una città dove si “marcano” i luoghi di culto e si sporca la memoria di un bambino per mandare un avvertimento. Ai responsabili, adesso, la città chiede una cosa sola: nome e cognome. E una risposta dello Stato.