Simonetta Cesaroni: trent’anni fa il delitto che sconvolse Roma

Il 7 agosto del 1990, in una Roma vuota per le vacanze estive, un delitto sconvolge la Capitale e l’Italia intera. Simonetta Cesaroni viene trovata morta alle 23.30 in via Carlo Poma 2. Il suo corpo viene scoperto negli uffici dell’Associazione italiana alberghi della gioventù. L’autopsia accerterà che la morte è avvenuta tra le 17.30 e le 18.30. La sorella Paola fa la tragica scoperta. Preoccupata, si reca nell’ufficio insieme al fidanzato Salvatore Baroni e al datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi.
Simonetta Cesaroni, “caso risolto in 3 giorni”. Invece no
L’assassino ha colpito Simonetta Cesaroni con 29 colpi di tagliacarte. Tutte colpi profondi circa 11 centimetri. Alcune sono mirate al cuore, alla giugulare e alla carotide. A ucciderla, tuttavia, è stato un trauma alla testa. I giornali dell’epoca riportano il grande ottimismo degli investigatori sull’esito dell’indagine. Su La Stampa, Giovanni Bianconi (citato recentemente anche nelle intercettazioni di Palamara) riporta fonti interne alla Questura. L’assassino avrebbe le ore contate. Infatti, la polizia arresta tre giorni dopo, Pietrino Vanacore. Il portiere dello stabile nel quartiere Prati sembra il colpevole perfetto. È l’ultima persona ad aver visto Simonetta viva, si contraddice durante gli interrogatori riguardo ad alcuni vasi che avrebbe annaffiato all’ora del delitto. Sui suoi pantaloni vengono rinvenute due piccole macchie di sangue e poi ha le chiavi dell’ufficio di Simonetta. L’ipotesi è che Vanacore abbia tentato di violentare la ragazza e l’abbia uccisa. Ma le perizie scientifiche smontano la tesi.

Gli errori degli inquirenti e la tecnologia approssimativa
Ma sono numerosi e clamorosi gli errori commessi dagli inquirenti all’epoca. Nessuno controlla i cassonetti della zona, per verificare se l’assassino abbia buttato indumenti o altro. Gli alibi delle altre persone coinvolte più o meno indirettamente nel caso, non vengono più passati al setaccio. Ci sono poi le macchie di sangue gruppo A. Sono all’interno della porta della stanza dove è stato trovato il cadavere della ragazza. Altre sono anche su un telefono dell’ ufficio. Sangue che non si sa a chi appartenga.
Di sicuro, come ha osservato Antonio Del Greco, capo della omicidi all’epoca del delitto, «resto dell’ idea che si sia trattato di un movente a sfondo sessuale. Qualcuno che lei conosceva. Quale serial killer citofona, sale, e dopo aver ammazzato la ragazza, pulisce tutto e chiude la porta con quattro mandate? È impensabile». Appunto. Quale assassino pulisce perfettamente un appartamento che non conosce e che non frequenta? Forse bastava ripartire da questo aspetto.
Il processo a Raniero Busco
Dieci anni fa, l’apparente svolta. Il processo a carico di Raniero Busco, all’epoca dei fatti fidanzato di Simonetta, inizia vent’anni dopo, il 3 febbraio del 2010, davanti ai giudici della terza Corte d’Assise di Roma. Al banco dei testimoni si siedono tra gli altri i familiari di Simonetta Cesaroni, gli amici di Busco e Cesaroni ma anche i periti della procura, i consulenti del pm e i poliziotti che svolsero le indagini all’epoca del delitto. Quello che è certo è che almeno una persona ha fatto mancare la sua testimonianza al processo. Infatti, pochi giorni prima della deposizione, Vanacore si uccide. In circostanze molto misteriose. Proprio Vanacore ha portato con sé un segreto inconfessabile o è solo stato vittima di ”venti anni di martirio”, come è scritto nel biglietto trovato nella sua auto subito dopo il suicidio? Il delitto, trent’anni dopo, è ancora irrisolto. Uno dei tanti gialli che attendono una soluzione.